Com’è piccola Milano, Peep Hole, Milano
Com’è piccola Milano, Peep Hole, Milano, 2011
Milano: 18 marzo 1978. Fausto Tinelli e Lorenzo “Iaio” Iannucci, con le mani infilate in tasca, chiacchierano percorrendo Via Mancinelli, mentre vanno a mangiare un piatto di risotto preparato dalla madre di Fausto. Ma c’è un uomo con una borsa con dentro una pistola. Spara otto volte: Iaio muore all’istante, Fausto pochi minuti dopo. Perché? Chi li ha uccisi?
Erano due ragazzi “genericamente” di sinistra, frequentatori regolari nel Centro Sociale Leoncavallo; Iaio era coinvolto nel movimento di occupazione delle case e Fausto stava collaborando a un libro bianco sull’eroina.
Ci sono due teorie: una – proposta nell’immediato – aveva a che fare con le informazioni sullo spaccio locale di eroina che Fausto che stava raccogliendo per il libro bianco pubblicato dal centro Leoncavallo. Forse Fausto aveva scoperto qualcosa che non doveva ed è stato quindi ucciso insieme al suo amico Iaio. L’altro è molto più contorto e ha a che fare con le Brigate Rosse (BR). Il 1 ottobre 1978, pochi mesi dopo l’omicidio dei ragazzi, i Carabinieri fecero irruzione in un nascondiglio delle BR, arrestarono alcuni dei principali membri del gruppo e scoprirono alcune delle lettere scritte da Aldo Moro, ucciso il 9 maggio di quell’anno, durante il suo rapimento. Si trattava di un covo di grande rilevanza: fu qui che una nuova ricerca condotta 12 anni dopo – nel 1990 – portò alla luce un’altra serie di documenti importanti, anch’essi parte degli scritti di Moro, in cui lo statista faceva riferimento all’operazione Gladio. Quel covo era al numero 8 di via Monte Nevoso. Fausto viveva al numero 9, dall’altra parte della strada. Dormiva su un divano letto accanto a una finestra che era a meno di 10 metri da quella dei terroristi: 8,80 metri, per la precisione. Com’è piccola Milano.
Lo spazio inferiore ai 10 metri racchiude intrighi ed eventi che raccontano i misteri di un’intera nazione, coprendo 12 anni ed estendendosi fino ai giorni nostri. Di fatto, lo scorso 24 febbraio è stato annunciato che il processo per l’omicidio dei giovani sarebbe stato riaperto per il sospetto che dietro la loro morte vi fossero i servizi segreti.
Questa minuscola distanza si trasforma in un simbolo: il simbolo di un’assurda convergenza di fatti ed eventi in apparenza non connessi eppure profondamente intrecciati.
In Da 8 a 9 Francesco Arena prende questa cifra – 8,80 metri – come punto di partenza e la mescola con un elemento estremamente personale come il suo peso, creando una scultura in bronzo che misura quella lunghezza precisa e quel peso esatto.
Attraverso un semplice gesto come quello di estendere il proprio corpo fino a una distanza determinata, l’artista ci offre due possibili percorsi. Da un lato, ha creato un autoritratto paradossale, in cui l’elemento fisico si trasforma in un’unità di misura universale per toccare e unire due luoghi: questo ha portato alla scelta della forma che allude al prototipo del metro di platino-iridio conservato a Sevrès, Parigi, una copia del quale si trova presso il Museo della Scienza e della Tecnologia di Milano. Dall’altro, l’opera è un monumento (da qui la scelta del bronzo, materiale nobile ampiamente utilizzato per la scultura monumentale) altrettanto paradossale che commemora questi eventi, evocando una distanza che racchiude idealmente l’intero paese e tutti questi anni.
La scultura è anche il cuore della performance trentasei sovrapposizioni di Licia Pinelli su Dino Buzzati, che temporaneamente attiva l’opera. Due voci si intrecciano, mescolando cronaca e finzione letteraria, in una narrazione che si sovrappone a un racconto di Dino Buzzati sulla lista delle morti seguito di uccisioni a sfondo politico a Milano, dall’ottobre 1962 al marzo 2003.
Date, cronaca e fatti personali fanno anche parte di Senza Titolo, un calendario del 1978 in cui l’artista ha segnato date specifiche interponendo quattro schegge di pietra. Tre frammenti di ardesia aprono infatti l’agenda alle date che riguardano il caso di Fausto e Iaio (il 16 marzo, il giorno del rapimento di Aldo Moro; il 18 marzo, giorno dell’omicidio di Fausto e Iaio, il 1 ottobre, il giorno dell’irruzione nel covo delle BR), mentre una scheggia di onice bianco apre la pagina alla data di nascita dell’artista (19 giugno), avvenuta nello stesso anno.
Milano: 15 dicembre 1969. Un uomo vola da una finestra, le sue braccia distese, il collo allungato e le gambe dietro di sé: sembra davvero che stia volando. Ma invece cade. Quell’uomo è Giuseppe Pinelli, ferroviere e attivista anarchico fermato dalla polizia durante le indagini sull’attentato di Piazza Fontana del 12 dicembre.
È alla centrale di polizia da tre giorni; il permesso per il suo fermo è scaduto d 24 ore, ma è ancora lì. È stato rinchiuso in una stanza di circa 4 metri per 4,5 al quarto piano dell’edificio in Via Fatebenefratelli, insieme al commissario Luigi Calabresi, tre brigadieri e un ufficiale dei Carabinieri. A un certo punto durante l’interrogatorio, Calabresi lascia la stanza per portare la trascrizione dell’interrogatorio di Pinelli al suo capo e pochi istanti dopo Pinelli precipita dalla finestra in strada.
Che cosa è successo? Come è morto Giuseppe Pinelli? Secondo le prime testimonianze, si è suicidato. Era un sospettato chiave, il suo alibi non aveva retto e aveva pensato che tutto fosse perduto. Due giorni dopo, tuttavia, si scoprì che Pinelli non aveva assolutamente nulla a che fare con l’attentato. Nel 1975, la sentenza nel successivo processo per la sua morte attestò che Giuseppe Pinelli morì di “malore”. Era stanco, stressato, non aveva dormito ed era stato interrogato fino a un minuto prima. Era andato alla finestra per prendere una boccata d’aria fresca, ma invece di fare un passo indietro si sporse in avanti, il suo corpo si rovesciò sulla ringhiera e cadde giù. Si tratta di una dichiarazione che ha convinto pochissimi. Rimangono molte domande riguardo alla morte del ferroviere Giuseppe Pinelli, insieme a molte contraddizioni da sbrogliare e una serie di strani eventi che portano successivamente all’omicidio del commissario di polizia Calabresi, fino al coinvolgimento di Roma, della regione Veneto e dei servizi segreti.
La morte di Pinelli è oggi commemorata da due lapidi poste in Piazza Fontana, direttamente di fronte a quella dedicata alle vittime del bombardamento, perché Pinelli – assolto dall’accusa – è passato alla storia come la 18a vittima della strage. La prima lapide fu installata negli anni ’70 dagli anarchici e recita: “A Giuseppe Pinelli, ferroviere e anarchico, ucciso innocente nei locali della questura di Milano il 16-12-1969. Gli studenti e i democratici milanesi”. Una notte nel marzo 2006 il governo della città, guidato da Albertini, decise di sostituire questa lapide non autorizzata con una “ufficiale”, recante le seguenti parole sotto il simbolo del Comune di Milano: “A Giuseppe Pinelli, ferroviere e anarchico, innocente morto tragicamente nei locali della questura di Milano il 15-12-1969”.
Dopo un’accesa polemica, gli anarchici di Ponte della Ghisolfa reinstallarono la vecchia lapide. Oggi, cinque anni dopo, entrambe le lapidi sono ancora lì, l’una accanto all’altra, a fare mostra delle loro differenze. Oltre alla data della morte di Pinelli – il 16 dicembre secondo gli studenti milanesi e democratici, ma il 15 secondo il Comune di Milano – la differenza chiave sta nelle parole “ucciso innocente” contro “innocente morto tragicamente”.
Solo tre metri di spazio e pochissime parole racchiudono l’intera distanza tra due visioni opposte e le incertezze che circondano una storia che non è mai stata chiarita. Com’è piccola Milano.
In occhio destro occhio sinistro, Arena si concentra sull’incoerenza tra le due lapidi, su quella “distanza” – non solo fisica ma anche politica – che le separa. L’artista ha creato due copie 1:1 usando gli stessi materiali e gli stessi caratteri, ma vi ha apposto solo le due frasi divergenti, nella medesima posizione di quelle originali.
Le due lapidi sono state montate sul muro in modo che la frase in ciascuna sia esattamente al livello degli occhi dell’artista. Arena, che con questo lavoro ha concluso il ciclo incentrato su Pinelli, iniziato nel 2009, ha ancora una volta creato un autoritratto attraverso “qualcos’altro”. Il suo sguardo diventa il filtro attraverso cui leggere o, meglio, rileggere un evento che è stato trasformato da privato in pubblico.
È come se la storia, quella che conosciamo e che ci tocca tutti direttamente, fosse qualcosa di realizzabile solo a livello personale (col proprio peso come unità di misura, la propria altezza come orizzonte attraverso il quale riconsiderare un determinato evento), e come se la storia propria di ognuno potesse essere risolta solo attraverso una storia più generale e necessariamente collettiva.